RICERCA SCIENTIFICA E FUTURO DEL PAESE

Un provvedimento sulla ricerca scientifica di questi giorni del Primo Ministro inglese Boris Johnson https://www.the-scientist.com/news-opinion/uk-announces-fast-track-visa-to-recruit-top-scientists-66252?utm_content=98526594&utm_medium=social&utm_source=facebook&hss_channel=fbp-212009668822281 mi ha riportato alla mente quanto scrissi che nel Luglio di 15 anni fa. La Repubblica mi chiese una riflessione per la prima pagina del quotidiano (non ero candidato a nulla e quindi i rapporti erano ottimi) sul fatto che in tutti i campi della ricerca scientifica gli Stati Uniti avevano raggiunto una posizione di assoluto predominio in termini di produzione scientifica, numero di ricercatori, investimenti pubblici e risultati. L’analisi del rapporto tra la produzione di ricerca scientifica e il futuro del Paese, realizzata da David King, consigliere per la ricerca scientifica del Primo Ministro inglese Tony Blair, e pubblicata quell’anno su Nature, rese tangibile la superiorità americana. Inoltre, mise in evidenza le strategie nazionali che hanno determinato il successo o il fallimento di politiche di sviluppo della ricerca scientifica in Europa e nei paesi più avanzati del continente asiatico. L’Europa era al secondo posto dopo gli Stati Uniti per produzione di ricerca scientifica ma il distacco era tale che non aveva senso parlare di competizione. Il 62% degli articoli scientifici più significativi, pubblicati tra il 1997 e il 2001, era targato USA mentre tutti insieme i quindici paesi della vecchia Unione Europea erano arrivati al 37%. La seconda nazione più produttiva era la Gran Bretagna con il 12,78% mentre l’Italia si posizionava solo al settimo posto con il 4,31%. Un tale distacco è il frutto di una precisa strategia, vincente, perseguita da cinquant’anni. Negli USA i cosiddetti “cervelli” vengono considerati una risorsa per la crescita del paese, una condizione sine qua non per garantire progresso, tecnologia e sviluppo economico. Per questo gli USA hanno da sempre scelto strategie per attrarre medici, scienziati e ricercatori da tutti i continenti. Ogni anno gli USA rilasciano oltre 300.000 visti a lavoratori stranieri qualificati, investitori, professionisti, ricercatori, lavoratori con straordinaria esperienza e così si sono arricchiti, e continuano a farlo, mentre gli altri paesi perdono risorse preziose, per di più dopo averle formate.

Il grafico che accompagna questo testo offre una chiara idea di cosa sia accaduto negli ultimi 15 anni. Gli USA mantengono il primato nella ricerca scientifica e nel numero delle pubblicazioni, ma invece che essere insidiati dall’Europa sono inseguiti dalla Cina che ha permesso a moltissimi ricercatori di ritornare nel proprio Paese. Infatti con leggi speciali e la creazione di infrastrutture per la ricerca scientifica la Cina ha determinato negli ultimi anni il rientro di 2,2 milioni di ricercatori.

L’Italia è uno dei paesi che subisce l’esodo dei suoi ricercatori e riduce, in modo lento ma inesorabile, la propria capacità di sviluppo. Gli investimenti pubblici destinati in Italia alla ricerca scientifica sono scesi da circa 10 miliardi di euro nel 2008 a poco più di 8,5 miliardi nel 2017. L’Italia investe in istruzione e formazione il 3,9% del Prodotto Interno Lordo (PIL), mentre la media europea è del 4,7%. Investono meno di noi solo Slovacchia (3,8%), Romania (3,7%), Bulgaria (3,4%) e Irlanda (3,3%). A distanza di 15 anni mi disturbano, per la loro attualità, le parole che scrissi nel 2004: “Paradossalmente, la qualità del lavoro degli scienziati italiani è molto buona, soprattutto se analizzata in rapporto agli scarsi investimenti. Vale a dire: i cervelli in Italia ci sono ma lavorano in condizioni precarie, è facile così dedurre che se fossero finanziati adeguatamente potrebbero eccellere. Eppure, a favore della ricerca si leva un coro di voci unanime, dal governo ai centri di ricerca, alle università, fino ai rappresentanti degli industriali sono tutti d’accordo: servono maggiori investimenti per rendere l’Italia competitiva e per la modernizzazione del paese. A me sembra che per aspirare a questi ambiziosi risultati bisognerebbe prima avere le idee chiare e una strategia in mente. Il Giappone, per esempio, ha scelto la strada della fidelizzazione: si assumono ricercatori anche senza una formazione di alto livello ma il posto di lavoro rimane lo stesso per tutta la vita, così la formazione avviene internamente e il ritorno sull’investimento è assicurato sul lungo periodo. Gli USA hanno invece adottato l’atteggiamento opposto: si assume solo personale altamente specializzato pronto a produrre, meglio se straniero e quindi già formato nel paese d’origine, e in questo modo non si spende nemmeno un dollaro per i costi di formazione. In Italia, per il momento, l’unica strada che si segue è quella della generosità: formare i ricercatori e poi lasciarli andare all’estero a tutto beneficio del paese di destinazione.

Spesso si leggono critiche severe al Governo USA e a quello Inglese, certamente in molti casi motivate. Tuttavia, l’atteggiamento nei confronti della ricerca scientifica nel mondo anglosassone è sempre di grande attenzione e rispetto. Concludo ricordando cosa accadde negli USA il 3 marzo del 1863. Nel mezzo della sofferenza della guerra civile americana, il presidente Abraham Lincoln decise di firmare un atto del Congresso degli Stati Uniti per fondare la National Academy of Sciences. Lo scopo di questa prestigiosa istituzione, di cui fanno parte oggi circa duemila scienziati di tutto il mondo, è sempre stato quello di esaminare le innovazioni legate alla ricerca scientifica e consigliare il Governo americano nelle sue decisioni, a volte controverse, su questioni legate al progresso della scienza. Ancora oggi rappresenta un punto di riferimento in America e nel mondo. Oggi centocinquant’anni dopo l’intuizione di Lincoln, prosegue una solida tradizione culturale: l’evidenza scientifica su temi controversi, come per esempio i cambiamenti climatici, l’utilizzo dell’energia o dell’acqua, la ricerca in medicina, deve essere illustrata ai cittadini per informarli e coinvolgerli nei processi che ricadranno inevitabilmente sulle loro vite.

L’Italia, a mio avviso, ha bisogno di un cambio di rotta radicale, di una cultura nuova, da inventare. Non è un processo impossibile, piuttosto è inevitabile dal momento che facciamo parte di quel ristretto gruppo di nazioni ricche che vuole avere l’autorità di guidare le scelte del mondo. Non si può appartenere al G7 e non promuovere la ricerca scientifica. La ricetta è semplice: delineare le aree strategiche, aumentare la percentuale di investimenti pubblici ma anche incentivare i privati, sollecitare proposte dai ricercatori e poi distribuire i finanziamenti sulla base di un processo di selezione pubblico e trasparente. Purtroppo, la leadership e i Governi italiani sembrano distratti, da anni da altre priorità.

Autore dell'articolo: Ignazio Marino